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mercoledì 27 ottobre 2010

Chi ha ucciso Gesù Cristo?...2° parte...

Chi ha ucciso Gesù Cristo?...1° parte...

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C’E’ CHI HA SCRITTO

Nonostante tutto ciò, in questi ultimi tempi, c’è chi ha saputo scrivere che la nostra interpretazione è «addirittura empia, se va fino a sostenere che non un uomo, e sarebbe già mostruoso affermarlo, ma un popolo intero per secoli e per quanti ancora ne passeranno, è stato votato da Dio (?) al male e al soffrire, non per sua colpa personale, ma per colpa di alcuni pochi (?), che non ne rappresentavano la volontà. è empio perché nega praticamente la bontà e la misericordia di Dio; nega l’amore che Gesù ha per tutti, anche per i suoi uccisori». Dinanzi a simili affermazioni, o meglio aberrazioni, di pensiero e di giudizio, noi vorremmo soltanto tacere, poiché ci sembra che prima di cercare e trovare l’empietà e la mostruosità nel pensiero e nel giudizio dei Santi Padri, Dottori ed Esegeti cristiani, l’una e l’altra cosa si dovrebbe cercare e trovare altrove, in mezzo ad altri tipi di gente. Tuttavia, una breve risposta non possiamo non darla. Ed affinché essa abbia autorità, ed inviti seriamente alla meditazione ed allo studio, la togliamo di peso dalle pagine di un grande apologeta del secolo III dell’era cristiana. A Marcione (ca 85-160), eretico gnostico di quel secolo, il quale, come pare, si scandalizzava anch’egli per il castigo che era piombato addosso al popolo ebraico, così lanciava un invito il grande Tertulliano (160-220): «Se tu prendi, o Marcione, fra le mani il Vangelo della verità, conoscerai subito di chi sia la frase che trasferisce sui figli il delitto dei padri. è, cioè, di coloro che applicarono a sè stessi ben volentieri questa sentenza: «Il suo sangue cada su di noi e su i nostri figli». La Provvidenza di Dio, dunque, non fece che registrare ciò che aveva ascoltato. Quella sentenza – «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» – non fu sentenza di Cristo, bensì dei giudei, i quali sottomisero sè stessi e i loro figli a tale castigo. Iddio, tuttavia, sottoscrisse la sentenza dei giudei, tale quale l’aveva ascoltata dalla loro bocca; ma non fu Lui a pronunciarla. La Provvidenza divina ratificò soltanto ciò che altri avevano detto. Nessuna pena, nessun castigo viene da Dio. Sono gli uomini che si procurano pene e castighi e se li trascinano dietro» 13. Dunque, a dire il vero, non è Dio che «ha votato – com’è stato scritto - un popolo intero per secoli e per quanti ancora ne saranno, al male e al soffrire»; è, invece, proprio quel popolo che si è votato da sé alla pena e al castigo, commettendo ed assumendosi la responsabilità del delitto orrendo del deicidio. Nell‘economia divina appare quindi come Dio rispetta sempre la libertà di ogni singolo uomo, come di ogni popolo e di ogni nazione nella scelta del proprio destino. Aggiungiamo soltanto che poiché «i figli degli ebrei», non erano sulla piazza di Gerusalemme a decidere del proprio destino, «quantunque tale pena – come osserva San Giovanni Crisostomo (ca 345-407) – fu imprecata dai giudei sopra sè stessi e sopra i figli, tuttavia il misericordiosissimo Iddio mitigò quella sentenza, applicandola soltanto agli increduli, e risparmiando i fedeli». «Il misericordiosissimo Gesù – scrive il santo Dottore – nonostante che i giudei impazzissero sia contro sè stessi che contro i loro figliuoli, non volle condannare tutti, secondo la loro sentenza. E così, sia tra loro che tra i loro figliuoli scelse molti, i quali si pentirono ed ebbero da Lui favori e doni copiosi. Fu, infatti dei loro Paolo, e quelle molte migliaia, che a Gerusalemme accolsero la fede dei quali parlano gli Atti Apostolici» 14. Nessuna empietà dunque, e nessuna mostruosità né in Dio né in altri; purché si comprenda bene la verità e si capisca in qual senso e per qual motivo la giustizia divina punisce il popolo ebraico, il quale da sé si assunse la responsabilità della morte dell’Unigenito del Padre. Furono puniti i giudei, uccisori di Cristo; saranno puniti i loro figli, sui quali i padri invocarono la punizione; ma soltanto se questi figli solidarizzeranno con i medesimi padri e non si convertiranno, e continueranno nella stessa ribellione contro Cristo, pietra angolare del nuovo edificio. Più di questo Dio stesso non poteva fare se è vero che ogni uomo, come ogni popolo e ogni razza, deve rimanere arbitro del proprio destino. E tutto questo e soltanto questo Egli fece e continua a fare nella Sua infinita bontà, che non può tuttavia prescindere mai dalla Sua infinita giustizia. Quindi, in tutta questa complessa e dolorosa vicenda del giusto castigo che pesa sul popolo ebraico, uccisore di Cristo, e sui figli del medesimo, non ha alcuna importanza stabilire – come fa il Caprile in due articoli di Palestra del Clero (settembre-dicembre 1960), se al tempo di Cristo era ancora in vigore la cosiddetta legge della responsabilità collettiva, oppure quella della responsabilità individuale. Infatti, non si dice che i figli degli ebrei nascano maledetti o in peccato, per il semplice motivo che sono di razza ebraica. Si dice soltanto che, ostinandosi di fatto nella stessa cecità degli avi, sintanto che rimangono in questo atteggiamento, cadono nelle stesse pene dei padri. In breve: i figli vengono puniti soltanto, se persistono nell’accecamento e malizia di coloro che si assunsero la responsabilità della morte di Cristo. Che poi, di fatto, la razza ebraica, nel suo insieme, rimanga così ostinata – anche dopo che Cristo ha dato un nuovo corso alla Storia e un nuovo volto al mondo – è un tal mistero che non si riesce facilmente a spiegare. Tuttavia, non pare troppo azzardato vedere in ciò una punizione di quello stesso enorme delitto che i padri commisero e non cessa di pesare sulle spalle dei figli, che in qualche modo hanno affinità con i medesimi. Tutto questo però sfugge evidentemente all’indagine umana, la quale non può che registrare il fatto, e stare contenta «al quia». (cfr. D. Alighieri, Purgatorio, 3, 37).

IL POPOLO ELETTO RIPROVATO PERCHE’ UCCISORE DI CRISTO


Gli argomenti che gli oppositori della nostra tesi portano contro di essa sono di doppio genere: quelli che vorrebbero avere per base la Storia, ossia storici; e quelli che vorrebbero avere per fondamento la Teologia, ossia teologici. I primi argomenti si sogliono addurre ricordando anzitutto che il popolo ebraico ebbe sofferenze anche prima dell’uccisione del Messia, mentre sarebbe ingenuo volere attribuire tutte le sventure del medesimo popolo, dopo quell’uccisione, a tale crimine. Aggiungono pertanto, che non è cosa degna di buoni ragionatori ostinarsi a credere che le stesse sventure dipendono da una maledizione pressoché ipotetica. La risposta a simili insinuazioni non è troppo difficile. Anzitutto, diciamo che non si tratta davvero di una maledizione ipotetica; ma di una maledizione, imprecazione, o voto – come si esprime il Ricciotti – che tutto il popolo e gli anziani, e cioè le guide d’Israele, pronunciarono ufficialmente nell’ora più grave e solenne della loro Storia; questo, se non erriamo, si trova scritto a caratteri ben chiari nel Vangelo. Come abbiamo detto altrove, si tratta di una imprecazione criminale, che un Padre della Chiesa chiama il delitto più orrendo, che potè esser commesso dai padri verso i propri figli. Noi vorremmo perciò che non si trattasse con troppa leggerezza e superficialità una tale questione, che viene riferita dal Vangelo con tanta chiarezza e con la massima precisione. Si tenga presente, per esempio, ciò che pongono in rilievo gli esegeti anche più moderni. Mons. Salvatore Garofalo, per esempio, in Mt 27, 25 annota: «Il suo sangue ricada su di noi sui nostri figli»; così, con un linguaggio tradizionale, gli ebrei si assumono la responsabilità della condanna a morte (di Gesù)». Claudio Zedda, Professore alla Pontificia Università Lateranense, definisce la condanna di Gesù «colpevole ripudio giudaico di Gesù come Messia [...]. L’ostinazione giudaica, dovuta all’incredulità, che impedisce le ulteriori grazie, è causa d’abbandono di Dio» 15. Non neghiamo che Israele ha sofferto anche prima dell’uccisione di Cristo; ma affermiamo, in pari tempo, e senza tema di smentita, con la Sacra Scrittura alla mano, che anche le sofferenze anteriori le ebbe quasi sempre per la sua proverbiale infedeltà e durezza di cuore verso il suo Dio. Per convincersi di ciò, basta leggere i vari Profeti, mandati da Dio a richiamare il popolo israelitico sulla retta via. Su tale argomento però spiccano specialmente tre Profeti: Isaia. Geremia e Sofonia. Basta leggerne i rispettivi moniti, inviati da Dio al popolo ebraico, per mezzo della loro parola. Così, più o meno, si può dire degli altri Profeti. Del resto, chi ha familiarità con i libri del Vecchio Testamento, ed in particolare con il Libro dei Giudici, non stenta molto a riconoscere che Dio, spessissimo, puniva il suo popolo a causa dei suoi peccati e delitti. In quanto alle sofferenze, le quali come si asserisce anche da chi ci contraddice si sono accentuate nei secoli cristiani, diciamo subito che esse, stando ai documenti evangelici e storici, si debbono propriamente attribuire, nel loro insieme, al delitto che fu commesso dai capi e dal popolo ebraico nel chiedere ed esigere la morte di Cristo dal Governatore romano, nonostante che egli più volte ne avesse proclamata l’innocenza. Ciò è decisamente storico. Ed invero, lo stesso Gesù, parlando della distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio la fa dipendere dal delitto che gli anziani e il popolo di Gerusalemme stanno per commettere. Ciò è evidente per chi legga con attenzione anche la sola parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21, 33-41; Mc 12, 1-12; Lc 20, 9-16). Dopo aver narrata quella parabola, in cui è detto che i vignaioli omicidi hanno ucciso anche il figlio del padrone della vigna, Gesù domanda: «Che farà il padrone della vigna»?, e conclude: «Il padrone della vigna (cioè Dio, come tutti interpretano) dopo che i vignaioli hanno ucciso il suo figliuolo, verrà e sterminerà i coloni e darà ad altri la vigna». Si legga – se si vuole – la parabola com’è riportata, fra gli altri, da Giuseppe Ricciotti nella sua nota opera Vita di Gesù Cristo (pag. 260, nº 513). Padre Enrico Didon o.p. (1840-1900), a sua volta, scrive: «Gesù, quindi, si volse verso il popolo e come se giudicasse i grandi indegni di intendere la verità, raccontò a tutti con una nuova parabola: ciò che egli era, da dove veniva, qual’era il suo ufficio e quale sarebbe il suo destino. I grandi ascoltavano. «Un uomo, un padre di famiglia, piantò una vigna, la circondò d’una siepe, vi scavò uno strettoio e vi costruì una torre; poi, allogatala ad alcuni vignaioli, partì per un viaggio lontano. E al tempo della vendemmia mandò uno dei suoi servitori per ricevere dai vignaioli la sua parte di frutto; ma essi, afferratolo lo batterono e lo rimandarono a mani vuote. Mandò loro un altro servo. Lo percossero, lo ferirono nel capo, e caricandolo d’oltraggi lo rimandarono a mani vuote. Ancora ne inviò un altro; ed essi l’uccisero. Poi molti altri, ed essi batterono gli uni e uccisero gli altri. E il padrone della vigna disse: «Che farò io»? Avendo un figlio che gli era carissimo, lo mandò a loro per ultimo, dicendo: «Forse, vedendo mio figlio, lo rispetteranno». Ma i vignaioli si dissero l’un l’altro: «Ecco l’erede! Venite, ammazziamolo, e l’eredità sarà nostra». Che farà dunque il padrone della vigna? Verrà, ucciderà questi vignaioli, e darà la vigna ad altri, che gli daranno la sua parte di fruttato a suo tempo». A tali parole quelli, che si sentirono presi di ira gridarono: «A Dio non piaccia»! Come per scacciare questo sinistro presagio. Gesù li guardò facendo un viso severo e minaccioso. «A Dio non piaccia, voi dite? Che vuol dir dunque questa parola del Libro? Non l’avete letta? La pietra gettata via dagli edificanti è divenuta la sommità dell’angolo. Ecco l’opera del Signore; ed è mirabile agli occhi nostri» (Sl 118, 23). Poi disse in termini propri queste parole che illustrano tutta la parabola: «Sì, il Regno di Dio sarà tolto a voi e dato a un popolo che ne produrrà i frutti». E tornando all’immagine della pietra profetica, aggiunse: «Chi cadrà su questa pietra, si fiaccherà; e colui su cui essa cadrà sarà stritolato». Gesù - continua a scrivere lo stesso autore – non poteva esprimere più chiaramente chi Egli fosse e da chi tenesse i suoi diritti. La vigna piantata dal Padre di famiglia, la siepe che la circonda, lo strettoio scavato, la torre di guardia innalzata in mezzo, è Israele, la nazione eletta da Dio con la Legge che la protegge, col suo Tempio ed il suo culto. I vignaioli sono la gerarchia. I servitori inviati alla stagione dei frutti e succedentisi l’uno dopo l’altro, sono i Profeti. Qual destino è il loro! Lo spirito di Dio li riempie e i padroni temporali della vigna invece di accoglierli, di rispondere al loro mandato e di portare ai loro piedi una parte della vendemmia, li prendono, li battono, li feriscono e li rimandano a mani vuote. Il Figlio del Padre di famiglia è Gesù stesso. Egli è al di sopra di tutti i Profeti; il suo titolo è unico e il suo diritto assoluto. Ed Egli viene umile e mite, senz’altra aureola che la divinità velata dall’amore; e ciononostante Egli è il più oltraggiosamente trattato, viene buttato fuori della vigna ed ucciso, come erano stati perseguitati e torturati quanti l’hanno preceduto. Sventura ai vignaioli, infedeli e malvagi! Sventura alla gerarchia colpevole! Poiché ella respinge, perseguita ed uccide quelli che vengono da parte di Dio, poiché non risparmia neppure il Figlio, Dio sta per vendicarsi. Il Regno muterà padrone, e dai giudei sarà trasferito ai pagani: il popolo eletto diverrà il popolo riprovato e le nazioni abbandonate diverranno le nazioni elette» 16.

LA DISTRUZIONE DI GERUSALEMME COME CASTIGO NAZIONALE
Una rappresentazione della distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme 

L’altra pagina evangelica in cui è descritto ciò che sarebbe avvenuto del popolo deicida, è quella in cui il Maestro divino piange su Gerusalemme e ne annunzia la rovina, proprio perché si è rifiutata di conoscere il giorno in cui Egli l’ha visitata. Ma forse non è superfluo riportare tutt’intera quella pagina, in cui la distruzione di Gerusalemme non solo viene predetta, come vorrebbero i novissimi «esegeti», ma è anche motivata ed annunciata come castigo. Infatti, vi è detto: «Quando fu vicino alla città, la guardò e pianse su di lei dicendo: «O se conoscessi anche tu e proprio in questo giorno quel che giova alla tua pace! Invece ora sono cose rimaste nascoste ai tuoi occhi. Poiché verranno per te giorni nei quali i tuoi nemici ti faranno attorno delle trincee, ti circonderanno e ti stringeranno d’assedio da ogni parte, e distruggeranno te e i tuoi figliuoli che sono in te, e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il momento nel quale sei stata visitata» (Lc 19, 41-44). Ed ancora: «Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli, come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e tu non l’hai voluto. La vostra casa sarà lasciata deserta. Ed io vi dico che non mi vedrete più finché non verrà il giorno in cui direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Lc 13, 34-35). Chi non vede che qui la «domus vestra deserta» non è che il Tempio e la città di Gerusalemme, distrutti per castigo di non aver accolto la visita di Cristo? Di ciò sono convinti tutti gli esegeti. Tra i quali Ricciotti, Padre Didons, Padre Lagrange e lo stesso Giovanni Papini, il quale ne parla lungamente nella nota sua Storia di Cristo. Ecco le sue parole: «Io vi dico che questa generazione non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute». Era l’anno 70 d. C. e la sua generazione non era tutta discesa nelle sepolture, quando queste cose accadevano. Almeno uno di quelli che ascoltavano sul monte degli Ulivi – Giovanni – fu testimone del castigo di Gerusalemme e della rovina del Tempio. Entro il tempo destinato, le parole di Gesù furono ricalcate, sillaba per sillaba, con atroce esattezza, da una storia di sangue e di fuoco. La prima fine, la fine parziale, locale, la fine del popolo deicida è avvenuta. Conformemente alla sentenza di Cristo, le pietre del Tempio sono disseminate tra le macerie e i fedeli delTempio sono morti nei supplizi o dispersi tra le nazioni» 17. Tuttavia, si insiste dicendo che semmai il castigo deve riguardare soltanto i rappresentanti del popolo e non tutta la massa del medesimo; dev’essersi compiuto solo contro coloro che si opposero alla novità apportata da Cristo, e che rappresentavano l’economia religiosa del Patto Antico. Al che è facile rispondere: 1) Tutti quelli che gridarono «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» si opposero, semmai, alla novità – chiamiamola così – rappresentata da Cristo, e perciò tutti vennero anche compresi nel castigo della distruzione di Gerusalemme. 2) Il Vangelo non parla della rovina di pochi (Lc 19, 41) rappresentanti del popolo di Dio, ma addirittura della distruzione totale della città e del Tempio e dei figli di detta città: «Distruggeranno te e i figli con te». D’altra parte, è la Storia che parla: la carestia era tale che – narra Giuseppe ebreo – furono viste le madri uccidere i figli per mangiarli (cfr. G. Papini, op. cit., pag. 404). Ma, meglio di quanti testimoni ed esegeti possiamo ascoltare, ci parla con chiarezza solare, ancora una volta, il Vangelo: «Quando vedrete Gerusalemme circondata d’eserciti, allora sappiate che ormai è giunta la sua devastazione. Quando poi vedrete la desolante abominazione, quella detta da Daniele il Profeta, stare là dove non deve, nel luogo santo (chi legge intenda!), allora quelli che sono nella Giudea fuggano verso le montagne, chi in mezzo ad essa (Gerusalemme) vada in campagna; e chi è nelle campagne, non rientri in essa. Chi sta sulla terrazza non scenda, nè entri a prendere qualcosa dalla sua casa; e chi è nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello. (in queste parole Gesù ammonisce i suoi seguaci). Perché quelli sono giorni di vendetta in adempimento di tutto ciò che fu scritto. Guai alle donne incinte e alle allattanti in quei giorni. Pregate poiché la vostra fuga (parla ai cristiani) non avvenga d’inverno, nè di sabato. Quei giorni saranno infatti di tribolazione grande quale non avvenne simile dal principio della creazione del mondo che Dio creò fino ad ora, ne vi sarà. Sarà grande la carestia sulla terra e l’ira su questo popolo, e cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani, finché non siano compiuti i tempi delle nazioni» (vedi P. Vanetti, op. cit., pag. 248, n. 245). Come è evidente, il Vangelo non si riferisce soltanto ad un castigo parziale dei capi, ma all’ira, alla vendetta e al castigo che sarà fatto di tutto un popolo (cfr. Mt 24, 15-20; Mc 13, 14-23; Lc 21, 20-24). Intorno alla a distruzione di Gerusalemme, come castigo del popolo di quella città e della nazione ebraica, ecco perciò quanto scrive l’esegeta Mons. Francesco Spadafora: «Nella giornata del martedì santo, Gesù ha concluso la sua condanna contro i farisei (Mt cap. 23) con la minacciosa profezia: «Ecco, vi si lascia la vostra casa deserta» (Mt 23 3); punizione severa, espressa chiaramente due giorni prima, nel suo ingresso trionfale in Gerusalemme (Lc 19, 41-44; Lc 13-34 e ss.} e si realizzerà su quella stessa generazione» (Mt 23, 36). E altrove: «In quel castigo, tutti riconoscono la manifestazione della giustizia e della potenza divina del Messia (Mt 30-6; Mc 26, 11; Lc cap. 27), e sarà un lutto generale per la gente giudaica che dovrà riconoscere di essere stata colpita per la crocifissione di Cristo (Mt cap. 30). La distruzione di Gerusalemme e la fine della nazione ebraica sarà un bene per la Chiesa nascente. Essa verrà liberata dalla fanatica e perseverante persecuzione della Sinagoga (Lc cap. 28) e si diffonderà mirabilmente per tutto l’impero romano e per tutta la terra» (Mt 31; Mc 27, 4; Lc 31) 18. Nota perciò giustamente Ferdinando Prosperini: «Alcune volte, la sensazione collettiva che colpisce un delitto collettivo è così chiara e così pronta che per negarla bisogna chiudere gli occhi innanzi all’evidenza. è il caso in cui si riferisce il brano evangelico della scorsa Domenica, ultima dopo la Pentecoste: il rifiuto di Israele che aveva chiamato sopra il suo capo il Sangue dell’Innocente fu il delitto di un popolo; l‘epilogo spaventoso che travolse nelle rovine fumanti del Tempio ogni resto di libertà e l’esistenza stessa Israele come nazione, fu il castigo di un popolo; sanzione più evidente, quanto più chiaramente annunciata» 19. «Gesù – scrive infine Padre Enrico di Rovasenda - piange su Gerusalemme, perché della città santa che aveva conservato nel Tempio il culto del vero Dio non rimarrà pietra su pietra. La distruzione di Gerusalemme fu una delle azioni più violente accadute nella Storia, una delle azioni in cui è più evidente il contenuto di un tremendo giudizio spirituale. Quella distruzione fu come un preannuncio della fine del mondo, il monito esemplare di un giudizio che sterminerà il peccato ovunque si annida, anche nelle tracce che lascia fra pietra e pietra. Gesù annunciò il motivo della giustizia: «[...] perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta». Dio aveva visitato la città santa con i Profeti e da ultimo l’aveva visitata con il Suo Figlio incarnato; ma i giudei, dopo aver ucciso i servi del Signore, ora si preparavano a crocifiggere il Figlio. I giudei commisero il peccato che contiene tutti gli altri: il rifiuto di Gesù Cristo. Chi respinge Gesù commette il massimo affronto a Dio, e prepara ogni peccato, perché chi si pone contro Gesù, non può che bestemmiare ed avversare ogni bene» 20. Giunti a tale conclusione, potremmo ben dire: «Satis de hac quaæstione» («e di ciò si è detto abbastanza») poiché nessun dubbio può sussistere nella mente di chi voglia tener conto della Storia, prima annunciata e quindi compiuta, in conformità precisa alla parola di Cristo, sulla distruzione di Gerusalemme e sui motivi della medesima. Tuttavia, non riusciamo a sottrarci alla tentazione di registrare ciò che è scritto in proposito nel Dizionario Biblico diretto dallo stesso Mons. Spadafora alla parola «Escatologia»: «Tenendo presenti le immagini adoperate dai Profeti per indicare il «giorno del Signore» o la manifestazione della giustizia divina contro i nemici del suo regno, si spiegano con facilità Mt 10, 23; 26, 63 e ss.; Lc 22, 69; e finalmente Mt 24, 3 (parusia); essi parlano della «venuta di Cristo» per punire la Sinagoga persecutrice, i giudei deicidi. Si tratta della distruzione di Gerusalemme, la manifestazione più clamorosa del Messia Giudice e supremo vindice dei suoi fedeli» (cfr. P. G. Lagrange, Evangile selon S. Mt., 4ª ed., 1927, pagg. 205, 207 e ss.; Prat, Iésus Christ, II, pag. 349). In Mt 16, 27 e ss. si parla dell’affermazione o dello stabilirsi della Chiesa, con l’immagine adoperata da Dn 7, 13 e ss., «venuta del Figliuolo dell’uomo»; «venuta del regno di Dio», Lc 9, 26 e ss., come organizzazione esterna, definitivamente distinta dalla Sinagoga (P. G. Lagrange, S. Mt., pag. 233; Ev. selon S. Lc., 269 e ss.; v. dimostrazione in F. Spadafora, Gesù e la Fine di Gerusalemme, pagg. 17 e ss, 25 e ss.). Quindi, da una parte il castigo dei giudei, specialmente nella distruzione di Gerusalemme (Dio interviene per punire), e dall’altra, protezione e trionfo della Chiesa (intervento a favore). Questi due aspetti della «venuta del Signore», sono congiunti nei due grandi vaticinî sulla fine di Gerusalemme: Lc 17, 20-18; Mt cap. 24; Mc cap. 13; Lc cap. 21. In Lc cap. 17, Gesù preannuncia ai discepoli le persecuzioni che li attendono dopo la sua morte. Essi allora invocheranno l’intervento del Salvatore («Verrà il tempo quando desidererete vedere uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo…» v. 22), che dimostra senza dubbio trattarsi di interventi di Gesù per punire i persecutori e liberare i suoi fedeli. Ebbene, il Signore interverrà, e in modo particolare «nel suo giorno», nel grande giorno (la distruzione di Gerusalemme) su cui qui si ferma (17, 25-30), e sul quale ritornerà nell’altro discorso (Mt cap. 24 e passi paralleli). Agli Apostoli che chiedono dove s’abbatterà il castigo, Gesù risponde con una frase proverbiale (Gb 29, 30): la preda è Gerusalemme su cui si abbatteranno gli avvoltoi (ossia le legioni di Roma; cfr. Mt. 24, 28; cfr. L. Tondelli, Gesù, Torino, 1936, pagg. 364-368). In Mt cap. 24 e passi paral., il divin Redentore inizia col predire la totale distruzione del Tempio e pertanto della capitale. I discepoli chiedono quando essa avverrà e quali segni la precederanno. è la fine di un mondo, quello ebraico, l’era del Vecchio Testamento e non la fine del mondo» 21. Ecco, pertanto, come riassume tutta la scena terrificante del ben noto grido blasfemo in sé e nelle sue estreme e rovinose conseguenze, un insigne esegeta: «Finalmente, Pilato, vedendo che nulla guadagnava presso quei cuori di macigno e che il tumulto andava ingrossando, prese dell’acqua e lavandosi le mani in pubblico, protestò che egli era innocente del sangue di quel giusto e che ne lasciava loro la responsabilità (Mt 28, 24). La turba a tale proposta prese a urlare: «Il suo sangue cada su di noi e sui figli nostri» («Respondens universus populus dixit: «Sanguis eius super nos et super filios nostros» v. 25). Pilato, allora, messo in libertà Barabba e fatto flagellare Gesù Cristo lo consegnò loro perché lo crocifiggessero: «Iesum autem flagellatum tradidit eis ut crucifigetur» (v. 26). I ciechi giudei gridano: «Il suo sangue cada sul nostro capo e sul capo dei nostri figli» («Sanguis eius super nos et super filios nostros»), ed ecco ormai duemila anni, dacché il sangue di Gesù Cristo, sparso per la salvezza del mondo, imprime sulla fronte dei giudei l’obbrobrio e la maledizione. Gerusalemme giace distrutta; la nazione ebraica è senza Re e senza capitale, non ha più nè legge nè tempio, nè sacrifici nè profeti, nè leviti; i suoi figli errano dispersi per l’universo, oggetto di scherno e di abominazione a tutti i popoli; portano sempre e dovunque l’impronta di Caino; curvano la testa sotto la riprovazione di Dio e la maledizione degli uomini; somigliano ad un corpo slogato, fatto a pezzi e disperso. Mostrano a tutte le famiglie del genere umano e a tutti i secoli, il loro deicidio, il castigo che ne fu la conseguenza e la vendetta che Dio ha preso della morte del Figliuolo suo. O giudei, voi gridaste: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli»! I vostri voti inspirati da un furore infernale si compiono… All’assedio di Gerusalemme, gli ebrei spinti dalla fame, fuggivano da una città che diventava la loro tomba; per ritenerveli e costringerli a sottomettersi, Tito ne mandava al supplizio della croce più di cinquecento al giorno, di maniera che, dice lo storico Giuseppe, mancarono ai Romani e le croci e lo spazio dove innalzarle. Chi non ravviserà in questo fatto un giusto castigo della crocifissione di Gesù Cristo? Voi gridaste, o giudei: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli»! Orbene, che cosa sei tu divenuto, o popolo, che altre volte eri il popolo di Dio e la nazione santa? Tu, da cui erano usciti i Patriarchi e i Profeti; tu che vedesti tanti miracoli e che possedevi le tavole della Legge, l’arca dell’alleanza il tempio del vero Dio; tu, nel cui seno nacquero Maria, Gesù, gli Apostoli, dove ti trovi ora? Che ne è di te? Vedi l’enormità del tuo delitto e l’espiazione che ti fu imposta!… Ascolta, o disgraziato quello che Davide, uno dei tuoi Re, ha predetto: «Si oscurino i loro occhi affinché non vedano; curva, o Signore, il loro dorso sotto una servitù perpetua» («Obscurentur oculi eorum ne videant, et dorsum eorum semper incurva»; Sl 68, 24). Versa su di loro la tua collera, e il furore della tua ira li investa; la loro dimora sia deserta, non vi sia chi abiti sotto il loro tetto. Permetti che aggiungano iniquità a iniquità, e non divengano mai giusti agli occhi tuoi. Siano i nomi loro cancellati dal libro della vita e non ottengano posto in mezzo ai giusti. Perché perseguitarono Colui che tu hai percosso, e aumentarono il dolore delle sue piaghe» (Sl 68, 25-29). Ascolta o popolo indurito, quello che dice Daniele, uno dei tuoi più grandi profeti: «Il Cristo sarà messo a morte e il popolo che deve rinnegarlo non sarà più suo popolo. Verrà un popolo con a capo un duce il quale distruggerà la città e il tempio e terminerà la sua opera col mettere ogni cosa a ferro e fuoco; dopo la guerra succederà la desolazione che è stata stabilita. L’oblazione ed il sacrificio cesseranno: l’abominazione della desolazione sarà nel Tempio, e vi rimarrà fino alla consumazione e alla fine» (Dn 9, 26-27). Ascoltate ancora Osea, anch’egli tra i vostri Profeti: «I figli d’Israele resteranno lunghi giorni senza Re e senza principi, senza sacrificio e senza altare, senza ephod e senza teraphim» (Os 3, 4). «Il mio Dio li rigetterà perché non l’hanno ascoltato e saranno dispersi in mezzo alle nazioni» («Abiiciet eos Deus meus, quia non audierunt eum, et erunt vagi in nationibus»; Os 9, 17). Né meno chiaro è quello che disse il Salvatore; narra infatti San Luca che Gesù avvicinandosi a Gerusalemme, appena la vide ruppe in pianto e disse: «Ah se tu conoscessi almeno quest’oggi quello che conforterebbe alla tua pace! Ma ora queste cose stanno nascoste ai tuoi occhi. Verranno giorni su di te, nei quali i tuoi nemici ti cingeranno di assedio e tutt’intorno ti stringeranno in modo da chiuderti ogni sbocco, e ti getteranno a terra insieme con i tuoi figli che saranno nelle tue mura e non lasceranno di te pietra sopra pietra perché non hai conosciuto il tempo in cui ti ho visitata» (Lc 19, 41-44). Gridate ora o deicidi: «Il suo sangue cada sopra il nostro capo e sul capo dei nostri figli»!… Ugo da San Vittore fa parlare così il popolo ebreo: «Noi gli abbiamo volto le spalle. Egli non ci ha fatto altro che del bene e mentre pregava per noi l‘abbiamo crocifisso. Noi abbiamo udite le sue parole e siamo stati colmati dei suoi benefici; abbiamo assistito da testimoni ai grandi e numerosi prodigi da lui pubblicamente fatti; ma abbiamo calpestato i suoi avvertimenti, ci siamo dimostrati ingrati ai suoi benefici e beffati dei suoi avvertimenti, ci siamo dimostrati ingrati ai suoi benefici e beffati dei suoi miracoli. Lo abbiamo inteso allorché ci istruiva sul monte, ma siamo passati turandoci le orecchie; di qui le disgrazie che soffriamo. Lo abbiamo veduto nutrire la folla che lo seguiva, ma ce ne siamo risi; di qui la triste nostra condizione. L’abbiamo veduto confitto in croce, ma l’abbiamo bestemmiato e maledetto; di qui il nostro terrore e la nostra rovina. Abbiamo inteso la sua dottrina e sappiamo che essa portava la vita, ma noi abbiamo scelto la morte. Le sue istruzioni dissipavano le nostre tenebre, ma noi abbiamo scelto la morte. Le sue istruzioni dissipavano le nostre tenebre ma noi abbiamo ricusato di prenderle per guida. Egli ci offriva la salute e la vita, e noi ci siamo rifiutati all’una e all’altra. La sua morte ha risuscitato i gentili; ma a noi, che eravamo il suo popolo, questa morte, opera nostra, ha impresso indelebile il marchio della riprovazione» (De Anima). «Ah sì – dice San Girolamo – l’imprecazione ha avuto il suo effetto: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli»: lo ha ora e lo avrà fino alla fine. Il Sangue del Signore scorrerà sempre su di loro. Questo Sangue, come dice il Re Profeta, fa pesare sopra di essi un obbrobrio eterno: «Opprobrium sempiternum dedit eis» (In Daniel)» 22.
FONDAMENTO TEOLOGICO

Oltre al fondamento storico, di cui abbiamo parlato, gli oppositori della verità che ritiene certo il castigo nel caso della distruzione di Gerusalemme, si professano convinti che non vi è neppure un fondamento teologico; poiché, altrimenti si dovrebbe ammettere che Gesù, il quale ha comandato ai Suoi seguaci di perdonare ai nemici, Egli stesso non avrebbe posto in pratica questo comandamento (Mt 6, 12; 14, 15). Se ciò fosse – aggiungiamo noi – sarebbe veramente grave. Ma soltanto sospettarlo, a noi, appare sacrilego. Che Gesù, dal canto Suo, abbia perdonato, non vi è dubbio alcuno; anzi, noi sappiamo che oltre al perdono, Egli ha invocato per i Suoi nemici persino una scusante, chiamandoli ignoranti e inconsapevoli del loro atroce delitto (Lc 23, 34). E Padre Gaetano Maria da Bergamo o.f.m. (1672-1753) nel suo notissimo lavoro dal titolo Pensieri ed affetti sulla la Passione di Cristo per ogni giorno dell’anno, impiega ben tre meditazioni su questo argomento (nn. 333-335), nelle quali rileva, con profondità di pensiero e nella luce di testi biblici e patristici abbondanti, come Gesù in tal caso, esercitò eroicamente la Sua carità verso i propri nemici. Quindi, Cristo, non solo ha osservato ciò che ha comandato ai Suoi seguaci, ma l’ha osservato in modo tale che soltanto Egli poteva farlo: eroicamente, cioè, divinamente 23. Non è quindi il perdono di Cristo che è mancato e di cui si possa discutere. Si tratta, al contrario, del pentimento e del ravvedimento dei Suoi nemici, i quali, scelsero liberamente il delitto del deicidio, di cui mai, come popolo e nazione, chiesero perdono tornando a quel Cristo che pure si è immolato per l’universo intero, e perciò anche per essi. E tutti sanno che per cancellare il peccato e sfuggire al castigo che al medesimo inesorabilmente si deve, non basta la clemenza e la bontà infinita di Cristo e di Dio Padre; è necessario che la volontà umana si converta alla volontà divina, e, con dolore e pentimento adeguato alla gravità della colpa, ne chieda perdono. Ora, ciò non solo non avvenne sotto la croce, ove i nemici di Cristo continuarono a gridargli: «Se vuole che crediamo in Lui scenda dalla croce» (Mc cap. 15), ma neppure dopo, quando seppero che Egli era veramente risorto; poiché allora più che mai si ostinarono nel loro peccato e, aggiungendo delitto a delitto, si misero a perseguitare gli Apostoli e quanti in Cristo mostrarono di credere, flagellandoli nelle loro sinagoghe, come Cristo stesso aveva predetto, e proibendo loro di parlare di Colui che essi avevano crocifisso, con la pretesa di toglierlo per sempre dalla terra dei viventi come aveva già previsto il Profeta. Così lapidarono Stefano, il quale pure, mentre pregava affinché fossero perdonati, non mancò di rimproverarli come uomini di dura cervice e sempre ostinati contro le mozioni dello Spirito Santo (At 7, 1-59). Ed allora chi non sa che perdonare non si può a chi non si pente – direbbe Dante – «per la contraddizion che nol consente?» 24. Ancora un’osservazione. Per negare che le persecuzioni del popolo israelitico e principalmente la distruzione di Gerusalemme abbiano carattere punitivo e siano un meritato castigo, dovuto al peccato del deicidio, si afferma che «anche i cristiani sono stati sempre perseguitati e lo sono ancora, purtroppo, ora qua ora là, con forme diverse, ma sempre crudeli e costanti; e tuttavia nessuno dice che essi sono maledetti da Dio…». Ma è ovvio rispondere a tale insinuazione, facendo osservare che è propriamente Cristo che prevede le persecuzioni dei cristiani e ne adduce la causa dicendo che esse si devono alla fedeltà che gli stessi cristiani terranno al Suo nome («propter nomen meum»; Lc 21, 19), mentre è ancora lo stesso Gesù, il quale, parlando della distruzione di Gerusalemme dice: «Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi i mandati a te, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli come la gallina raduna i suoi pulcini sotto le ali, e non hai voluto! Ecco vi sarà lasciata deserta la vostra casa» (Mt 23, 37-38), «perché non conoscesti il tempo della tua visita» (Lc 19, 44).

«PADRE, PERDONA LORO»
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In questa preghiera di Cristo vi è la prova più evidente, come abbiamo rilevato, che Gesù ha pregato affinché i Suoi nemici fossero perdonati dal Padre celeste. Ma non è altrettanto certo che essi abbiano ottenuto il perdono, chiedendolo e pentendosi del loro orrendo peccato. Dinanzi a questa preghiera di Cristo si convertì anche uno dei ladroni crocifisso alla Sua destra; ma non quello giustiziato alla Sua sinistra… Prendendo occasione dalle parole «perdona loro perché non sanno quello che fanno», vi è chi ferma l’attenzione sulla frase «non sanno», e si domanda: «Chi è che non sa»? E pare a lui che nessuno o quasi nessuno di coloro che erano intorno alla croce seppero chi fosse veramente Cristo. E perciò tutti o quasi tutti ignoranti, e quindi scusabili e inconsapevoli del loro delitto. Infatti, Cristo non fu conosciuto dai soldati romani, «inconsci esecutori di ordini ricevuti». Non lo conobbe Pilato, il quale aveva appena sentito parlare di Cristo e delle Sue colpe e, pur ritenendolo giusto ed onesto, forse lo scambiò per un qualsiasi ebreo ricercatore di verità. Non lo conobbe la folla, che era intorno alla croce e che aveva chiesto, invocando su di sé il Suo Sangue, la crocifissione di Cristo; e non lo conobbero neppure i capi del popolo; i quali, appunto per la Sua affermazione di essere Figlio di Dio, ne avevano chiesto la morte dinanzi al giudice Pilato. E così tutti ignoranti e, diciamolo pure: tutti innocenti! Se si dovesse accedere a tale ipotesi, ci sarebbe subito da domandarsi: ma allora la preghiera di Gesù che valore avrebbe dovuto avere? E quale eroismo sarebbe stato quello di un morente nel chiedere il perdono per i suoi uccisori innocenti? La verità quindi dev’essere ben altra. Che Cristo non l’abbiano conosciuto perfettamente i soldati romani, passi…; che non l’abbia conosciuto perfettamente Pilato, quantunque sentisse che qualche cosa di divino si doveva nascondere in quel misterioso Giusto di cui lo avvertì anche sua moglie, Claudia Procula, passi pure; che non l’avesse conosciuto la folla dubito assai, poiché si tratta di quella folla, di quel popolo in mezzo al quale Egli visse e predicò per tre anni. Si tratta di quella folla e di quel popolo, di cui guarì molti infermi e sfamò per ben due volte col prodigio della moltiplicazione dei pani; si tratta di quella folla e di quel popolo, che pochi giorni prima lo aveva acclamato Messia, insieme ai suoi fanciulli, e a molti convenuti a Gerusalemme nell’imminenza della Pasqua… Che non lo conoscessero, o meglio, che Cristo non si sia fatto conoscere sufficientemente e luminosamente ai capi religiosi d’Israele, deve assolutamente negarsi. Più volte, infatti, Cristo aveva affermato la Sua messianità e divinità dinanzi a loro. E non l’aveva affermata soltanto con parole. L’aveva affermata implicitamente con i Suoi prodigi inauditi, come, per esempio nella guarigione del cieco-nato e nella resurrezione di Lazzaro. Ma vi è ancora di più: poiché essi si ostinavano a chiudere gli occhi dinanzi alla luce del sole, Cristo, vista la loro malvagia ostinazione, disse chiaramente, di essere il Messia e il Figlio di Dio. Tuttavia, affinché su questo punto non si abbia alcun dubbio, è opportuno riferire per intero quello che avvenne tra Gesù e i giudei. Poiché gli contestavano che Egli fosse Dio, gli si fecero d’attorno e gli chiesero: «Fino a quando terrai sospeso il nostro animo? Se tu sei il Cristo, dillo a noi chiaramente». Gesù rispose loro: «Ve lo dico e voi non credete; le opere che faccio nel nome del Padre mio rendono testimonianza. Ma voi non credete, perché non siete delle mie pecorelle. Le mie pecorelle ascoltano la mia voce; io dò loro la vita eterna; esse non periranno in eterno e nessuno me le strapperà di mano. Ciò che il Padre mio mi ha dato, è da più di ogni cosa e nessuno può rapirlo dalle mani del Padre mio. Io ed il Padre siamo uno». I giudei presero allora delle pietre per lapidarlo. Gesù disse loro: «Io vi ho fatto vedere molte opere buone del Padre mio; per quale di queste opere mi volete lapidare»? I giudei risposero: «Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia, e perché essendo tu un uomo, ti fai Dio». Gesù replicò loro: «Non è forse scritto nella vostra legge: «Io ho detto voi siete dèi»? Ora, se essa chiama dèi coloro ai quali la parola di Dio è stata diretta e la Scrittura non può essere annullata, a quello che il Padre santificò e inviò nel mondo, voi dite: «bestemmi»! Perché ho detto: «sono Figlio di Dio»? Se non faccio le opere del Padre mio, non credete in me, ma se le faccio e non volete credere a me, credete alle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre» (Gv 10, 24-38). Ed è tanto evidente questa dimostrazione della divinità, che Gesù fece di Sé, che molti vennero a Lui e dicevano: «Giovanni non fece alcun prodigio. Ma tutto quanto Giovanni ha detto di costui, era vero. E molti credettero in lui» (Gv 10, 42).

IGNORANZA COLPEVOLE

Forse perché qualcuno può chiudere gli occhi dinanzi al sole si potrà dire che egli ignori la luce di quel mirabile e luminoso astro? Gli ebrei rimasero bensì nelle tenebre; seppure vi rimasero; ma certamente per colpa e ostinazione loro personale e perché, come dice lo stesso divin Maestro: «Amarono più le tenebre che la luce per nascondere la malvagità delle loro opere» (Gv 3, 19). Dunque, chi mai potrebbe scusare tale ignoranza ostinatamente voluta? D’altra parte, se si giungesse a dire che nessuno conobbe Gesù, quale veramente Egli era, incolpevolmente, sarebbe lo stesso che dire: Egli non provò mai sufficientemente né la Sua messianità, né la Sua divinità; e giustamente perciò fu ucciso da chi ignorava ciò che egli soltanto temerariamente avrebbe affermato. Sarebbe enorme e vacillerebbe lo stesso fonciamento di tutta l’apologetica cristiana. Si deve dire, invece, che Egli mostrò, come abbiamo visto col Vangelo alla mano, chi Egli era: il Figlio di Dio, cioè in tutto uguale, come si espresse, al Padre che è nei cieli 25. Ma i giudei chiusero gli occhi, perché l‘invidia, come rilevò più volte Pilato, e le altre passioni li resero ciechi volontariamente dinanzi alla luce. Su ciò sono d’accordo tutti, con a capo San Tommaso d’Aquino (1225-1274), il quale scrive: «Omnia enim signa videbant in eo quae dixerunt futura Prophetae [...] videbant enim evidentia signa divinitatis ipsius, sed ex odio et invidia Christi ea pervertebant; et verbis ejus quibus se Dei Filium fatebatur, credere noluerunt» (cfr. Summa Theologiæ, 3 p., qu. 47, art. 5). A questo proposito, si potrebbe anche consultare il nostro Padre da Bergamo, (op. cit., pag. 234), nella quale è chiaramente rilevato come gli ebrei furono ciechi per colpa loro. Per questo i moralisti conoscono ed insegnano che esiste una duplice ignoranza: una invincibile, e quindi incolpevole; l’altra vincibile e perciò colpevole, grassa, supina o, come dicono, affettata. Ma è evidente che i giudei erano ignoranti come afferma lo stesso San Tommaso, soltanto per ignoranza vincibile, supina, grassa affettata, e perciò colpevole. Quindi, non si fa loro nessuna ingiuria, se vengono chiamati deicidi, poiché hanno ucciso Colui che si era dichiarato ed aveva dimostrato di essere vero Dio e vero uomo (vedi i moralisti e rileggi il Vangelo in proposito; cfr. Le Camus, Vita di Gesù Cristo, vol. 3 pagg. 270-271; G. Papini, Storia di Cristo, vol. pagg. 404-405, ed altri che hanno scritto su tale questione). Il paragone infine che si fa dicendo che i giudei hanno ucciso Gesù, come i greci uccisero Socrate, gli americani Abramo Lincoln, gli italiani Umberto I di Savoia 26, è del tutto ridicolo e senza alcuna consistenza logica. Prescindendo infatti che l’autore di simile ravvicinamento e confronto ha soltanto il merito minimo invero di aver copiato e ampliato quanto aveva già scritto l’ebreo J. Klausner, cristianamente compatito da Padre Vosté (op. cit., pagg. 141-142 n. 1), né il popolo greco fu promotore della morte di Socrate, nè G. Booth uccise Lincoln chiedendone il permesso agli americani, né Bresci si mise in combutta con gli italiani per uccidere il «Re buono». è vero, invece, proprio il contrario: e cioè che Booth a causa del suo delitto fu fucilato e Bresci condannato all’ergastolo, con pieno plauso del popolo americano e italiano. Come perciò si siano potuti arzigogolare simili raffronti non si riuscirà mai a capire pienamente. Del resto, né Socrate, né Lincoln, né Umberto I di Savoia sono in alcun modo paragonabili a Cristo, il quale, oltre ad essere stato preannunciato al popolo ebraico molto tempo prima per mezzo dei Profeti, provò con schiacciante evidenza la Sua missione divina di Messia e la Sua infinita dignità di Figlio di Dio venuto tra gli uomini per redimerli dal peccato e dalla schiavitù di Satana. A tale scopo, Egli più volte, come abbiamo rilevato, invitò i Suoi nemici a rileggere e meditare quelle stesse Sacre Scritture, nelle quali essi riponevano tutta la loro speranza e salvezza. Diceva infatti, come riferisce San Giovanni: «Voi scrutate le Scritture, perché pensate di trovare in esse la vita eterna; ora, esse mi rendono testimonianza, eppure voi non volete venire a me per avere la vita» (Gv 5, 39-40). «Se non fossi venuto e non avessi parlato, non avrebbero colpa; invece non hanno scusa al loro peccato. Chi odia me, odia il Padre mio. Se non avessi fatto fra loro opere che nessun altro ha fatto, non avrebbero colpa; ma ora le hanno vedute, e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo è avvenuto perché si adempisse la parola scritta nella loro legge: «Mi hanno odiato senza ragione» (Gv 15, 22-25).

CHI HA, DUNQUE, UCCISO CRISTO?

Cristo morto MantegnaPer noi non esiste nè può esistere dubbio alcuno: Cristo lo hanno ucciso i giudei. Ma i nostri oppositori, poiché Gesù nell’orto del Getsemani disse: «Ecco, è giunta l’ora e il Figlio dell’Uomo è consegnato nelle mani dei peccatori» (Mc 14, 41), credono di potersela cavare affermando: «Poiché siamo tutti peccatori, l’abbiamo ucciso tutti». Ma qui, d’un tratto, si passa dall’ordine storico a quello morale e mistico. è vero che tutti siamo peccatori e che, come tali, abbiamo partecipato alla morte di Cristo, il quale è venuto sulla terra propriamente per salvare i peccatori, ed è morto per i peccatori, non può dubitarsi; ma non può affermarsi neppure che tutti i peccatori lo hanno ucciso di propria mano o lo hanno condotto a Pilato e ne hanno chiesto con insistenza la morte. Ed infatti, una cosa è dire che Cristo è morto per salvare tutti i peccatori; un’altra è dire che tutti i peccatori l’hanno ucciso, spingendo forsennatamente Pilato a condannarlo a morte e a rilasciarlo nelle loro mani, ed in balìa della loro volontà perversa, prepotente e sanguinaria, la quale più volte ne richiese il supplizio della croce… Che sia morto per i peccatori, è una verità così comune nella fede dei cristiani, che non vale neppure la pena di provarla con i testi biblici, ben noti, del Profeta Isaia (Is 53, 4-5), e con l’autorità di San Paolo (Rm 5, 5-8), e con altre testimonianze, che abbondano nei Libri Santi e in tutta la letteratura cristiana dogmatica e morale e ascetico-mistica. Ma la questione, come abbiamo accennato, è ben altra, e bisogna che venga posta così: chi ha procurato storicamente, sollecitandola con ogni mezzo e ricorrendo perfino alla minaccia di accusare Pilato davanti all’Imperatore e movendo la sedizione popolare, la morte di Cristo? Posta in tal modo, la domanda, non può avere che una risposta: soltanto i giudei sono stati causa della morte di Gesù. E difatti, furono essi a perseguitarlo e ad insidiarlo in ogni modo, durante tutta la Sua vita, interpretando diabolicamente i Suoi prodigi più strepitosi; furono essi che si ostinarono a non vedere la luce che emanava dalla parola e dalla vita di Cristo. Furono essi che si servirono di Giuda per catturarlo nell’orto di Getsemani; furono essi ad inviare la sbirraglia nella notte fatale. Essi lo condussero attraverso i tribunali; essi ne chiesero ripetutamente ed insistentemente la morte, sollevando il popolo contro di Lui e minacciando il giudice Pilato. Tutto questo è storico e s’impone come un assioma matematico a chiunque legga e non voglia rifiutare il Vangelo. In quanto al testo al quale si appoggiano i nostri oppositori («Ecco, è giunta l’ora e il Figlio dell’Uomo è consegnato nelle mani dei peccatori») anch’esso, se ben si consideri, non ha che lo stesso senso ed equivale alle parole: «Ecco, è giunta l’ora, e il Figlio dell’Uomo è consegnato – come di fatto fu consegnato – nelle mani dei giudei, cioè del Sinedrio, e del popolo ebraico, che poi lo condusse innanzi ai giudici, e ne chiese pubblicamente insistentemente e minacciosamente la morte, che ottenne soltanto al grido: «il suo sangue cada sopra di noi e sui nostri figli»! Basta leggere tutto il cap. 14 di San Marco. E basta rivedere la triplice predizione della medesima Passione e Morte di Gesù (prima predizione: Lc 9, 32; Mc 8, 31-33; Mt 16, 21-23: seconda predizione: Lc 9, 43-45; Mc 9, 30-35; Mt 17, 22-23; terza predizione: Lc 18, 31-34; Mc 10 32-34, Mt 20 17-19). Scrive perciò Sant’Agostino, evidentemente nella luce dei testi evangelici: «I giudei volevano volgere tutta l’iniquità di quel delitto in un giudice uomo; ma potevano forse ingannare il Giudice Dio? Pilato, facendo quel che fece, fu certo partecipe del male, ma, in cofronto a loro, molto meno reo. Insistette per verità, come poté per liberare Gesù dalle loro mani, e con questo medesimo intendimento lo lasciò flagellare. Non per perseguitare il Signore lo flagellò, ma come per saturare il furore giudaico, sperando che a quella vista cedessero le ire, e non volessero più uccidere chi vedevano flagellato. Ma, perseverando coloro, egli si lavò le mani, dichiarandosi mondo della Sua morte. Nondimeno, lo condannò. Ora, se è reo colui che lo condannò invito, sono forse innocenti quelli che lo sforzarono perché lo condannasse? Nient’affatto! Ma egli proferì contro Gesù la sentenza e comandando che fosse crocifisso, quasi egli stesso lo uccise. E voi, o giudei, altresì lo uccideste. Come lo uccideste? Con la spada della lingua. Aguzzaste difatto le vostre lingue, e lo uccideste gridando: «Crocifiggilo, crocifiggilo»! 27. Parrebbe superfluo aggiungere altre parole a questa recisa affermazione di Sant’Agostino, il quale, del resto, non è che la voce di tutti i Padri e Dottori dei secoli cristiani. Tuttavia, non vogliamo rinunciare ad un’ultima considerazione: se gli ebrei, capi e popolo, non avessero davvero ucciso Cristo, quale senso potrebbe avere quella selva ben nota di improperi che si pronunciano nella Liturgia del Venerdì Santo, in cui è Dio stesso che rimprovera al popolo ebraico tutte le sue ingratitudini e scelleratezze e l’empio delitto di averlo appeso sopra una croce dopo tanti benefici ricevuti attraverso i secoli della storia ebraica?

Preghiamo i nostri lettori a rileggerli e meditarli alla luce dei fatti, e non dei sogni più o meno pietosi verso il popolo ebraico; poiché come è stato rilevato proprio in quest’anno 1960: «La massima responsabilità morale dell’iniquo processo e del nefando deicidio è del popolo eletto. I suoi capi presero l’iniziativa, macchinarono e tramarono; il popolo l’assecondò» 28.

Continua...

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